Marcel Duchamp

(Blainville-Crevon, 28 luglio 1887 – Neuilly-sur-Seine, 02 ottobre 1968)

Un’opera di Marcel Duchamp
in alta definizione

La ragnatela di Duchamp

Dopo Duchamp l’arte non ebbe più scampo. Rimase intrappolata in una tela di ragno da lui tessuta. Una tela che aveva perso il rigore della simmetria concentrica del disegno, ma che restò capace di intrappolare intere generazioni di artisti.
Senza rendersene contro l’Arte, dopo Duchamp, non poteva che fuggire lontano o compiacersi nel restare invischiata nelle trame feconde del DADA.

Arte e fotografia, body art, installazioni, contaminazioni di generi artistici diversi, cortometraggi, fusione tra arte e suoni, immagini in sequenza, altri mondi … altre identità che anticipavano l’avatar. Non solo provocazioni, ma nuovi originali contenuti destinati ad autoevolversi. Questo era il seme del Dada. Questo, e il contrario di questo, era il senso di un movimento che rivoluzionò il modo di guardare all’arte nel suo complesso.

Marcel Duchamp, è noto per avere realizzato i ready made. Il famoso “orinatoio” del 1917, è una delle immagini più diffuse del Dada. È raro incontrare chi non si senta offeso dal fatto di ritenere artistico un oggetto che nel sentire collettivo è quanto di più distante dal concetto di Arte. Forse l’orinatoio è stato scelto proprio per questo. Per sollevare reazioni. Per smuovere le coscienze. Per far riflettere sulla natura stessa dell’arte che, in quel determinato momento storico aveva bisogno di essere viva, e non rispolverata come un oggetto antico che merita rispetto.
L’avere attribuito all’arte un valore commerciale l’aveva fatta diventare un prodotto… l’arte cominciava ad essere considerata ad essere apprezzata non in sé ma in relazione a quanto valeva… Ma allora, se debitamente inserito in un contesto museale anche uno squallido orinatoio poteva essere considerato arte! È così che Duchamp salvò l’anima dell’arte.

Tutto comincia con una ruota di bicicletta… una semplice ruota piantata su di uno sgabello. Lo stesso termine ready made deve la sua nascita a questa opera del 1913. Duchamp, a quel tempo, si trovava a Parigi. Come pervenne ad un simile oggetto è un mistero, di fatto unì una ruota, nata per generare il movimento ad un oggetto che è stato inventato per favorire la stasi. La scelta operata conduce l’oggetto ad essere considerato un’opera d’arte quando esso viene inserito in un contesto dove convenzionalmente l’uomo è indotto a considerare tutto come “arte”. Allora l’opera d’arte sta sia nell’avere concepito l’oggetto che nell’avere agito affinché esso potesse essere considerato arte. Le due intenzioni non possono essere scisse.
Inoltre il connubio ruota-sgabello rimanda al concetto che l’arte è movimento, azione, pensiero… ma un’opera per essere “considerata” arte deve essere esposta in un museo. Un luogo statico per eccellenza al tempo di Duchamp.
Un’altra impostante constatazione è che Duchamp realizza attraverso l’unione di due oggetti altrimenti utili un oggetto completamente inutilizzabile, confermando così il principio della antifunzionalità dell’arte.
Ma ritorniamo all’orinatoio. In realtà il titolo dell’opera è “Fontana”. Duchamp era negli Stati Uniti a quel tempo, all’interno del gruppo direttivo della Società per gli artisti indipendenti, una struttura simile al Salon des independants di Parigi. Duchamp decise di partecipare alla mostra organizzata dall’associazione proponendosi con un orinatoio rovesciato, ma utilizzando un altro nome. La firma R. Mutt fece così la sua comparsa nel bianco materiale dell’orinatoio e, se proviamo a giocare con le lettere del nome mettendo la R dopo il cognome si otterrà la parola Mutter, termine tedesco che significa Madre.
Il “pezzo” venne rifiutato ma Duchamp espose ugualmente la sua opera scatenando ovviamente polemiche, si erse addirittura a difensore dell’opera presentata dal tale Mutt dicendo ai suoi colleghi che non aveva alcuna rilevanza il fatto che il Signor Mutt avesse o no realizzato con le sue mani l’oggetto, ma che era importante il fatto che l’avesse scelto e successivamente riproposto come un qualcosa di nuovo e di completamente scisso dalle sue reali prerogative di utilizzo. Sosteneva praticamente che l’autore dell’opera aveva totalmente reinventato l’oggetto semplicemente capovolgendolo ed apponendovi un titolo: “Fontana”, appunto.
Attraverso tali affermazioni si deduce che Duchamp mira a svincolare l’opera d’arte dal suo atavico legame con il concetto del “fare” materialmente, per sposarla con il concetto di “scelta” e quindi di fatto spinge a considerare l’arte come pura azione concettuale.
Un particolare curioso: il pezzo originale della “Fontana” di Duchamp è andato disperso. Si racconta che alla fine della mostra del 1917, alcuni sprovveduti operatori, incaricati di smantellare la mostra stessa, buttarono via l’opera di Mutt, scambiandola semplicemente per un vero orinatoio. Tale episodio conferma così proprio quello che con questa opera Duchamp voleva dimostrare, e cioè che l’oggetto privato del suo contesto e nuovamente capovolto poteva di nuovo assumere il suo ruolo originario di oggetto comune… c’è da chiedersi: che Duchamp abbia pagato i due facchini?

Una delle affermazioni Dada che sono state maggiormente oggetto di discussione è quella che dice che chiunque può essere un artista.
Ma, chiunque può essere artista significa anche che qualsiasi cosa può essere considerata arte… Non solo ciò che è convenzionalmente imposto, non solo quello che la borghesia del tempo apprezza come arte conferendo di fatto attraverso il suo potere economico uno specifico valore ad una cosa piuttosto che ad un’altra. Ecco che Dada diventa anche il vessillo dell’anticonformismo.

È il 1919. Questa volta è l’icona stessa dell’arte ad essere per così dire “dissacrata”. Si tratta del dipinto più noto al mondo, dell’opera più osannata, più diffusa dalla carta stampata, più discussa ed osservata già al tempo di Duchamp. Si tratta della GIOCONDA. L.H.O.O.Q. (il suono di tali lettere se lette in sequenza in lingua francese, restituiscono la frase Lei ha caldo al culo).
Questo è l’irriverente titolo dato da Duchamp ad una immagine della Gioconda dotata di baffi, che ha scandalizzato e divertito una grande quantità di critici di storia dell’arte di mezzo mondo.
Aldilà dell’evidente messaggio di invito di una comune rilettura dell’opera, svincolata dalla troppo frequente imposizione culturale che la vuole sola ed incontrastata icona dell’arte rinascimentale italiana, si possono ritrovare in L.H.O.O.Q. altri contenuti che si riferiscono ad alcune ipotesi di Duchamp. L’autore vede infatti la Gioconda di Leonardo come un androgino, unione di componenti maschili e femminili. Tale considerazione ricollega l’opera alla precedente opera “Fontana”, firmata R. Mutt. Mut infatti è il nome di una divinità egizia madre di tutti gli esseri umani in virtù della capacità di generare autonomamente grazie alla particolarità di essere dotata sia di attributi maschili che di attributi femminili.

Il Grande vetro

Sebbene si possa ritenere il grande vetro a prima vista come qualcosa di distante dall’arte figurativa, in realtà Duchamp non è mai stato dedito all’astrattismo. Attraverso il linguaggio della pittura meccanica trova il modo di generare una letteratura visiva che si avvale di elementi dal disegno meccanico, tuttavia non possedenti il requisito della animazione. Forse è per questo che, La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, opera che non è stata mai completata, nota come il Grande vetro, (esposta al Philadelphia Museum of Art), è stata realizzata in così tanto tempo, dal 1915 al 1923. Si tratta di un insieme di materiali eterogenei che non pervengono alla genesi di un’ opera unitaria che voglia deliberatamente coinvolgere l’osservatore nel suo aspetto emotivo. In alto a sinistra si trova la sposa, appesa ad un gancio, che è ridotta ad un assemblaggio metaforico d’essenza. Osserviamo come si individuino due ambiti distinti: la parte superiore dove è presente la sposa, e quella inferiore, dove si trova l’apparecchio scapolo: un complesso meccanismo costituito dal mulino ad acqua, dalle forbici, dai setacci, dalla macinatrice di cioccolato e dai testimoni oculisti. Sopra il mulino è situato il “cimitero delle livree e delle uniformi”, dove i nove stampi maschi rappresentano le diverse identità dello scapolo (Corazziere, Gendarme, Lacchè, Fattorino, Vigile, Prete, Impresario di pompe funebri, Capostazione, Poliziotto). Lo scapolo, al suono delle sue litanie, “macina da solo la sua cioccolata”: è identificato col “gas illuminante”, che subisce una serie di complicate trasformazioni e passaggi di stato, passando attraverso i vari ingranaggi dell’apparecchio.
Duchamp concepì un’opera dinamica ed antidinamica al tempo stesso, dal significato mutante e la lastra di vetro ben si prestava a tale concetto. Inoltre il vetro è supporto capace di riflettere. È dunque un invito a riflettere anche per l’osservatore. Avvalersi della ragione per cui non si deve emozionare ma congelare nella staticità. È un esplicito richiamo alle teorie neoclassiche.

Il vetro è stato concepito per non aderire alla parete ma per essere ambientato in uno spazio. I materiali sono fogli di piombo, di argento e la tecnica olio su vetro, misura cm 276×176. Due le lastre di vetro che racchiudono lamine di metallo dipinto, la polvere, e i fili di piombo. Il grande vetro è stata definita una delle opere più ermetiche e complesse del ‘900. Sarà lo stesso Duchamp a dare indicazioni precise a riguardo nelle due raccolte di appunti, la Scatola verde che non è altro che una raccolta di appunti i delle idee che Duchamp aveva avuto per il Grande vetro. Chiarirà: Non è un “quadro ma, un ammasso di idee”, una “macchina agricola”, o “mondo in giallo” o “ritardo in vetro”.

Dada

Tutto nasce al Cabaret Voltaire. Nel 1916, alcuni personaggi come Tristan Tzara, Hans Arp, Marcel Janco, Hugo Ball, Emmy Hennings, Richard Huelsenbeck ed altri, proponevano singolari esibizioni in un locale dove erano soliti riunirsi per discutere di arte. Durante una serata aperta al pubblico, ebbe luogo la presentazione del manifesto dada. Era il Luglio del 1916; Il manifesto tuttavia è noto per essere stato scritto da Tzara nel 1918. In realtà egli ne fornì una reinterpretazione letteraria. Il dadaismo si sviluppa sulla base di un rifiuto dell’arte tradizionale e successivamente si tende ad includere in tale rifiuto sempre maggiori categorie. Cade la fede nei valori estetici, il concetto di bellezza, di ragione derivante dagli ideali positivistici, si rifiuta l’esaltazione del progresso e si perviene lentamente all’azione dissacrante nei confronti dei concetti medesimi. Si esaltano i comportamenti anticonformisti e i nuovi procedimenti artistici. Alla radice esiste un mutato rapporto con la realtà. Se la realtà doveva rispondere alle esigenze della borghesia indifferente alle istanze di carattere sociale, se doveva necessariamente aderire alle logiche della guerra allora era bene riformularla. Il rifiuto del reale si avvale dell’oggetto reale per pervenire ad una realtà nuova , diversa da quella data. Dada non si propone tuttavia con dei programmi precisi, anzi si vuole avvalere di una assoluta mancanza di programmi. Luogo di nascita del Dadaismo è la Svizzera. Luogo di crescita sarà New York. Barcellona, grazie alla presenza di Picabia, che aveva pubblicato la rivista “391”,costituirà un ulteriore centro di diffusione.
«Nudo che scende le scale n. 2», del 1912, venne rifiutata dal Salon des Indépendants e l’anno successivo esposta a New York. Quando, nel 1915, Duchamp arriverà a New York la notorietà raggiunta dalla sua opera l’aveva preceduto favorendo l’incontro con il gallerista Stieglitz e con personaggi di spicco come Man Ray e Francis Picabia.
Si è molto detto delle ricevute influenze futuriste per il concepimento di questo dipinto… in realtà la contemporanea visione delle immagini in movimento risponde ad una esigenza di studio comune a molte correnti artistiche dell’epoca; non si poteva restare insensibili alle coeve ricerche sulla cinematografia.. occorre perciò guardare con occhio diverso al nudo che scende le scale e concentrarsi sulle componenti che costituiscono il particolare fascino che l’opera genera nell’osservatore. La fluidità del movimento è una di queste. L’immagine non si articola secondo un movimento a scatti, ma la fluidità del movimento espresso è paragonabile alla fluidità della scala del vestibolo della Laurenziana. Sembra quasi di poterla tradurre in musica.
Tuttavia questo capolavoro non venne compreso… forse da questo rifiuto emerse la spinta verso nuove strade che l’artista intraprese subito dopo.

Verso la fine della sua vita L’artista affermò: “Mi sono servito della pittura, dell’arte, per stabilire un modus vivendi, una specie di metodo per capire la vita; cercare cioè per il momento di fare della mia vita un’opera d’arte, invece di passarla a creare quadri o sculture. Ora, penso che si possa usare il proprio modo di respirare, di agire e di reagire agli altri (…) Si può trattarli come un quadro, un tableau vivant, o un’immagine cinematografica, se volete. Sono le mie conclusioni di adesso, che non ho né voluto né organizzato quando avevo 15 o 20 anni, ma mi rendo conto ora, dopo molto tempo, che in fondo è a questo che ho mirato”. È straordinaria l’intuizione che occorreva fare della propria vita un’opera d’arte. Non si limitò alla semplice affermazione. Concepì un personaggio ambiguo, sempre per il gusto di giocare sull’elemento maschile e femminile. Si costruisce un alter ego: Rrose Selavy.

Si tratta di un fotomontaggio operato dall’amico Man Rey. Il viso di Duchamp è inserito in una sorta di cornice realizzata da una foto della moglie di Picabia. L’operazione non è diversa da quella di un Ready-made. Il corpo è come un oggetto reinventato unendo le componenti di due personaggi reali, già fatti. In questa immagine si intersecano diversi linguaggi artistici: la futura Body art con la fotografia, il ready made con l’anticipazione del concettuale. Comprende che la fotografia è un mezzo capace di far credere alla gente che ciò che vede è verità. Gioca con il valore della fotografia come documento come precedentemente aveva giocato con l’opera d’arte e il suo contesto di riconoscibilità. È il 1921.
Successivamente si apre per Duchamp un periodo diverso in cui ama dedicarsi al gioco degli scacchi. «I pezzi degli scacchi sono l’alfabeto che plasma i pensieri, e questi pensieri esprimono la bellezza astrattamente.»

Alcuni hanno interpretato questo momento come una pausa. Ma non avevamo detto che voleva fare della sua vita un’opera d’arte? In tal senso si potrebbe credere che, se è arte anche la messa in scena della propria vita, Duchamp non ha mai smesso di generare opere. Ad ulteriore convalida di tale affermazione sta il fatto che in questo presunto periodo di pausa realizza un cortometraggio: Anemic Cinema. Viene proiettato in una sala cinematografica di Parigi: è il 1926.

Ci rendiamo conto che non c’é’ cosa che Marcel Duchamp non abbia anticipato: i “rotoreliefs” precedono l’ Optical art della fine degli anni ’50.

Nel 1936 è il linguaggio surrealista a riavvicinarlo nuovamente ad una attiva partecipazione al mondo dell’arte. Duchamp partecipa alle mostre surrealiste e, nel 1942 si stabilisce a New York diventando cittadino statunitense. Concepisce un’opera particolare dal titolo “Boite en válise”, che consiste in una raccolta portatile delle riproduzioni delle sue opere. Proporre le sue opere in una così stretta relazione reciproca permise a Duchamp di sottolineare il percorso generativo, in modo che le opere non mostrassero solamente se stesse, ma anche il procedimento ideativo delle atre. Dal 1946 al 1966, “si dedica ad un’assemblage dal titolo Étant donneés. una porta di legno consumata, dalle cui fessure, si può vedere parzialmente il corpo di una fanciulla nuda con in mano, una lampada a gas. L’artista, morirà presso Parigi a Neuilly-sur-Seine, nel 1968. Sulla sua lapide una scritta riporta una grande verità: “D’altronde sono sempre gli altri che muoiono”.