Storia della fotografia

antico ritratto

La storia della fotografia comprende un periodo che va dalla sua invenzione,- intesa come invenzione della tecnica o insieme di tecniche relative alla riproduzione di una immagine stabile, fissata su supporto materiale attraverso l’agire diretto, o mediato in vario modo, della luce- alle attuali tendenze, che fanno anche ampiamente uso delle tecnologie digitali che consentono la registrazione diretta su supporto magnetico delle immagini ottiche. La comparsa della fotografia ha condotto ad una rivoluzione nel mondo dell’arte e della cultura in genere. Grandissimo infatti fu l’impatto emotivo generato in relazione alla acquisita capacità di ottenere e possedere una esatta riproduzione della realtà. Il mondo dell’arte ne fece largo impiego.
Alcuni artisti francesi come Delacroix e Ingres fecero ricorso per la realizzazione di alcune loro opere, a dei veri e propri “bozzetti fotografici”. Successivamente la fotografia si affermerà sempre più come arte autonoma e, nei primi anni del 1900, si avranno delle reazioni a quegli atteggiamenti che miravano a considerarla in un certo modo “a servizio” delle arti pittoriche.
A tal riguardo si pervenne a numerose iniziative come ad esempio le istanze proposte da Stieglitz, promotore della Photo-Secession di New York nel 1902, che volle porre la ricerca fotografica su di un piano analogo alle ricerche condotte nell’ambito delle altre arti visive. Ritornando alla nascita della fotografia, possiamo affermare che, la sua invenzione -tradizionalmente attribuita a Daguerre-, in realtà può farsi risalire a tutto quel patrimonio di ricerche che condussero successivamente alla sua “invenzione”.
Nel 1727 J.H.Schulze, chimico tedesco, pervenne attraverso i suoi studi, ad una descrizione scientifica del carbonato d’argento e alla sua capacità di annerirsi in seguito alla esposizione alla luce. Pertanto, pur essendo Daguerre il nome che è più diffusamente collegato alla nascita della fotografia, in realtà, il suo merito, fu quello di saper sintetizzare e concretizzare le teorie altrui, poiché altri prima di lui erano giunti a quei procedimenti che permisero la scoperta delle tecniche fotografiche.
Gli esperimenti sopracitati, che aveva condotto Schulze, furono ripresi nella seconda metà del 1700 dal Scheele e Senebier e successivamente Wedgewood e Davy, che nel 1802, tenteranno proprio sulla base di quelli, la strada della applicazione pratica della fotosensibilità dei sali d’argento. I due infatti ottennero pur non sapendo rendere i risultati, permanenti, delle impressioni in negativo su supporto cartaceo. Il 1819 segna un’altra data importante nella evoluzione delle scoperte che condussero alla definizione della tecnica fotografica: J. Herschel documenta la solubilità dei sali d’argento non esposti alla luce in tiosolfito di sodio, rendendo noto, dal 1839, questo elemento di fissaggio dell’immagine fotografica. Ma la data più importante per la storia della fotografia resterà pur sempre il 1929, anno in cui Daguerre definirà la tecnica del dagherrotipo. La dagherrotipia (dal nome di Daguerre), fu un perfezionamento dell’eliografia di Niepce. Si trattava di una unica prova su lastra di rame argentata, sensibilizzata con vapori di iodio e “sviluppata” con vapori di mercurio. Ma facciamo un passo indietro…
Nel 1814, Joseph Nicéphore Niepce, a Gras, presso Chálon-sur-Saóne, aveva sperimentato un nuovo sistema per semplificare l’incisione sul metallo. Niepce, che dal 1801 aveva concentrato il suo interesse sulla litografia, (il procedimento di stampa a mezzo di pietra incisa introdotto in Francia nel 1814 dal conte Lasetvrie du Saillant), pensò di perfezionare quel sistema tipografico e sostituì la pietra con una lastra di stagno. Trovare un mezzo per indurre la luce a fare il disegno, è quello che si proponeva. Prese una lastra di rame argentato, la ricoprì di un sottile strato d’asfalto e la collocò in una cassetta di legno, che funzionava da camera oscura, di fronte a una tavola disegnata o dipinta. Dopo una giornata, le parti dello strato di bitume che erano rimaste “impressionate”, cioè esposte all’azione della luce riflessa dalle zone più chiare del dipinto, diventarono bianche e le altre restarono nere. Allora Niepce immerse la lastra in un bagno d’essenza di lavanda -che scioglie il bitume non impressionato, lasciando intatto quello reso bianco dalla luce-, e sulla lastra di rame argentato restò così soltanto il bitume riproducente l’immagine in negativo. Tale procedimento lo chiamò “eliografia”. Questo evento rappresentò il primo passo di Niepce per preparare lastre per stampa. Spandendo sulla lastra trattata, un acido destinato a incidere le parti del metallo messe a nudo, ma che non può attaccare le parti ancora ricoperte dal bitume (che viene poi tolto e le parti da esso protette) se ne ottiene in rilievo la riproduzione (sempre in negativo) del disegno. La lastra è così pronta per la tipografia.
Da qui ad applicare il procedimento alla fotografia il passo fu breve e, intorno al 1816, cominciò a usare la camera oscura per ritrarre immagini dal vivo. Il 5 maggio così scriveva al fratello Claude: “Ho messo il mio apparecchio sulla finestra aperta della stanza dove lavoro, dirigendolo verso la piccionaia. Ho fatto l’esperimento nel mio solito modo e ho ottenuto sulla carta bianca quella parte della piccionaia che si vede dalla finestra ed una debole immagine anche di questa, che era meno illuminata”. In seguito alla scoperta Niepce lavorerà alla ricerca di materie più sensibili all’azione della luce tentando di tutto: il nitrato al cloruro d’argento, il perossido di manganese, il cloruro di ferro, il fosforo, la cocciniglia, finché il 3 settembre 1824 riesce a fissare i contorni di un paesaggio.
Nel 1826, dopo una posa di ben otto ore da quella finestra dove un decennio prima aveva posto il suo apparecchio, su una lastra di peltro per eliografia, spalmata di bitume di giudea e posta all’interno della sua camera oscura con diaframma, la prima fotografia della storia era impressa, in positivo diretto, su una lastra di peltro lucidata. Nel 1827 Niepce incontra Daguerre. Daguerre era noto al pubblico per l’invenzione uno spettacolo assolutamente nuovo per quell’epoca e pieno di sorprese, che aveva luogo nel Diorama, -una sala circolare capace di contenere 350 persone-. Lo spettacolo consisteva nella presentazione, su una piattaforma girevole, di vedute dipinte su tele di cotone trasparenti. (Queste erano disposte prospetticamente su una profondità di 15-20 metri. Ogni quadro poteva raggiungere la lunghezza di 22 metri e la larghezza di 14 ed era illuminato in modo da ottenere un gioco di ombre e di chiaroscuri capaci di riprodurre con fedeltà incredibile tutti gli effetti della luce in natura. Si poteva ad esempio assistere perfino alla scena suggestiva della chiesa di Saint Etienne du Mont che man mano si illuminava per la celebrazione della Messa di mezzanotte con l’entrata dei fedeli. Altre rappresentazioni rimaste famose furono i panorami del Monte Bianco e dell’isola di Sant’Elena o di San Pietro a Roma).
Interessato al problema del fissaggio delle immagini ottenute per azione del sole, Daguerre aveva appreso che questo problema era stato risolto da Niepce, -il quale, a sua volta, desiderava conoscere i risultati di quegli analoghi esperimenti annunciati da Daguerre e cioè quelli di avere apportato alla camera oscura un perfezionamento considerevole tale, da costituire un procedimento più semplice e sicuro per il fissaggio delle immagini-. Così, il 5 dicembre 1829, a Chalon-sur-Saòne, Niepce e Daguerre firmano un contratto di associazione. Messo al corrente sui dettagli del procedimento eliografico di Niepce, Daguerre lo perfeziona: sostituisce per prima cosa il bitume con una sostanza più untuosa, la resina, che ottenne distillando essenza di lavanda sciolta in alcool, poi, invece di lavare la lastra, la espone a vapori d’olio di petrolio. Il vapore si condensa in goccioline sulle parti rimaste in ombra, le scioglie e le rende trasparenti senza intaccare le parti esposte alla luce, che conservano la loro morbidezza naturale e riproducono anche le parti chiare dell’immagine, ottenendo la gradazione delle tinte.
Dopo un anno di collaborazione con Niepce, Daguerre, fortuitamente dimentica un cucchiaio su una lastra argentata, preparata con joduro, e, dopo un po’ di tempo, si accorge che sulla lastra è rimasto, nitidissimo, il disegno del cucchiaio. Ciò gli basta per comprendere la sensibilità dello joduro d’argento alla luce. Nel 1833 Niepce muore, colpito da trombosi cerebrale. Daguerre seguita i suoi esprimenti e ad esporre, per molte ore, le lastre preparate con joduro d’argento. Un giorno in cui infine il cielo è nuvoloso e minaccia di piovere, Daguerre toglie le lastre dalla finestra e le sistema in un armadio. Quando va a ritirarle, qualche giorno dopo, si accorge con enorme sorpresa che, dopo una esposizione assai breve, di appena quindici minuti, esse danno immagini limpide, già fissate e sviluppate.
Daguerre intuisce allora, grazie al caso che dentro l’armadio, ripostiglio di numerose miscele chimiche, si deve poter trovare la spiegazione di quell’effetto. Qualcosa ha sviluppato l’immagine in breve tempo, risparmiando la lunga esposizione alla luce del sole! La causa di tutto stava infatti nella presenza di un recipiente di mercurio, dal quale si sviluppavano, dentro l’armadio, alcuni vapori con la proprietà di svelare e fissare definitivamente l’immagine.
I perfezionamenti da lui escogitati sono tanto considerevoli che ormai Daguerre giudica essere venuto il momento di farsi conoscere come l’inventore della nuova arte e farà in seguito brevettare speciali apparecchi per il dagherrotipo; Chevalier fornirà le lenti per gli obbiettivi. Ad Alphonse Giroux, cognato di Daguerre, fu dato il compito di costruire e smerciare, con enorme successo, un apparecchio per dagherrotipia che misurava cm. 30 x 37 x 50 e che era corredato dai alcune lastre sensibili e dei prodotti occorrenti per la stampa. In Francia e in Inghilterra i dagherrotipisti eseguivano ritratti le cui dimensioni andavano dai 4 cm. x 5, ai 17 cm. x 22. Tali ritratti venivano poi montati su astucci di metallo dorato e venduti. Dopo che il procedimento di Daguerre venne reso pubblico nel 1839, il dagherrotipo si diffuse enormemente e da questo successo si posero le premesse per i successivi sviluppi che condussero al successo della fotografia. Ciò che piacque fu la brevità dei tempi di posa, la definizione dei particolari e il fatto che si prestasse a sostituire la miniatura nei casi dei piccoli ritratti. Il dagherrotipo si diffuse oltre che in Europa, anche negli Stati Uniti. Parallelamente al dagherrotipo intanto altre ricerche portavano verso la riproduzione dell’immagine su carta, trattata con sali d’argento…

QUALCHE CENNO SULLE CARATTERISTICHE DELLE PRIME STAMPE…

E’ il 1839 e il francese H. Bayard ottiene dei positivi diretti su supporto cartaceo, in copia unica. Già Talbot nei primi del 1830 aveva utilizzato carta sensibilizzata, per delle “stampe a contatto”. Intorno alla fine del decennio lo stesso Talbot diffondeva la tecnica del “disegno fotogenico”. Dal disegno fotogenico era rapidamente passato al “calotipo” che, introducendo il duplice passaggio da un unico esemplare negativo cartaceo direttamente ripreso, portava alla possibilità di avere un numero illimitato di stampe – cioè positivi su carta-, dove una nuova esposizione alla luce attraverso il negativo invertiva i toni e restituiva una corrispondenza con il reale. Tale scoperta condusse alla fotografia come la si concepisce oggi. Sarà Herschel, colui che aveva diffuso le proprietà fissanti dell’iposolfito di sodio, ad introdurre il termine “fotografia”. L’introduzione intorno al 1850 del “collodio” -cioè di un collante con nitrocellulosa e alcol in etere-, che permetteva di usare il vetro come supporto per il negativo fece sì che si ottenessero da quel momento, stampe su carta albuminata in grado di raggiungere -quasi- la ricchezza dei dettagli offerta dal dagherrotipo. La fine dell’ottocento porterà al procedimento alla gelatina-bromuro. Si potranno avere negativi “asciutti” e molto sensibili, che porteranno poi alla produzione di carattere industriale dei materiali fotografici. Prima le “lastre” e poi le “pellicole”.

Le foto della fine del XIX, propongono dei veri e propri ritratti in posa, in cui ogni persona è lievemente voltata di tre quarti ed è posa in modo totalmente rigido. Nelle foto più antiche lo scenario della foto è sempre accuratamente costruito. Ogni scatto, non certamente molto frequente, costituiva una importante documentazione e pertanto meritava grande cura nell’impostazione. Le fotografie sviluppate, in formato ridotto, erano incollate su degli appositi cartoncini che riportavano il nome e la firma dello studio fotografico, e sul retro apparivano dei timbri e dei bolli che ne confermavano l’importanza. Dal 1890 fino al 1910 le pose delle foto in studio sono ancora statiche ma la fotografia, cominciando anche ad affermarsi come innovativo mezzo di comunicazione propone adesso anche nuove pose e soggetti.
Dagli anni ’30, i ritratti vengono già effettuati in maniera diversa; lo sguardo del soggetto è solitamente rivolto al fotografo e le pose sono più dinamiche. Si diffondono sempre di più le foto in esterno e la fotografia diviene un importantissimo mezzo di documentazione della evoluzione dei paesaggi cittadini e territoriali. Contemporaneamente ai ritratti vengono infatti scattate fotografie di paesaggi, di guerre e scene di vita quotidiana. Nasce l’esigenza di documentazione fotografica degli oggetti di pregio artistico e storico e con essa si diffondono gli archivi di documentazione fotografica dei beni. Sotto il profilo della cura dell’aspetto delle stampe, assistiamo all’apparizione delle prime bordature intorno alle foto. I bordini vennero utilizzati fino negli anni ’50. Un altro particolare segno evolutivo è caratterizzato dalla scomparsa del supporto cartonato, su cui venivano incollate le fotografie. Queste foto sono stampate direttamente su un cartoncino, più leggero e meno elaborato di quello usato a metà ottocento.
Nel lento cammino evolutivo delle stampe notiamo che non vi è più sempre riportato il nome dello studio fotografico, e questo è probabilmente dovuto alla maggiore diffusione delle apparecchiature e quindi degli studi, che passano gradualmente all’anonimato in cui si trovano oggi. La qualità del colore rispetto a quella degli anni precedenti si evolve verso tonalità più fredde, abbandonando il color seppia che contraddistingue una foto antica.

LA STORIA DELLA MODA, RACCONTATA DALLE ANTICHE FOTOGRAFIE.

foto antica

La fotografia, ai suoi albori documenta la storia del costume della seconda metà del XIX secolo e dell’inizio del XX. Permettendo infatti già dalla sua comparsa, a tantissima gente di poter avere un proprio ritratto personale o di gruppo, ci fornisce dati sul modo di abbigliarsi dell’epoca. Nel periodo che va dal 1850-al 1870 circa, notiamo che si sviluppa lo “Stile Borghese”, che si era manifestato già negli anni ’20. I vestiti femminili, che fino a poco tempo prima, erano stati a vita alta e leggeri, si appesantiscono. La cintura torna in vita e le gonne si ampliano queste si sviluppano su diverse balze e la larghezza dei fianchi si contrappone a quella delle spalle, che si stringono sempre più. Le bluse si fanno molto accollate ed i colletti dei vestiti si ampliano, il bustino è stretto ed arrotondato. Data la bassa attaccatura delle maniche sul busto, e la rigidità del corpetto, in questo periodo il soprabito viene largamente sostituito dallo scialle o da indumenti morbidi simili. 

foto antica

Anche il modo di pettinarsi si può desumere dalle immagini antiche. L’acconciatura di questo periodo è molto semplice. Un’acconciatura liscia e divisa nel centro dalla riga con i capelli raccolti in una cuffietta, è quella più diffusa. In questo periodo iniziarono ad apparire anche le pettinature a larghi boccoli, che scendono sulle tempie e sulla fronte. Intorno il 1870-1890 sempre nell’abbigliamento notiamo delle differenze con il ventennio precedente. Osserviamo, infatti, che le spalle risultano più ampie e morbide, rispetto ai rigidi colletti e alle maniche degli abiti precedenti. Il colletto dei vestiti si alza e si restringe e, sotto ai vestiti, appaiono colletti di pizzo, che lasciano intravedere la biancheria. Un’innovazione interessante di questi anni, fu anche il ritorno del corpetto, che serviva ad esaltare i fianchi, la vita ed il seno prosperoso, accentuando il busto e le imbottiture. In questo periodo riapparvero, inoltre, i cappellini, ampi e piumati, e iniziamo a vedere anche il ritorno degli ombrellini, che assumeranno un ruolo importante nel ventennio successivo. I capelli vengono raccolti e sospinti verso l’alto, sollevati in fasce di boccoli e fissati con preziose forcine. 

foto antica

Alcune ciocche, solitamente dei riccioli, vengono lasciate libere di incorniciare il volto, sulla fronte o le tempie. alcuni boccoli sono stati lasciati scendere morbidamente sulle spalle. Dopo il 1890 la fotografia documenta un nuovo periodo nella moda, chiamato Riforma (1890-1910). Le maniche si allargarono all’attaccatura delle spalle per poi stringersi lungo la lunghezza del braccio, sostituendo l’effetto ‘prosciutto’ con quello a ‘palloncino’, e mostrando maggiormente la linea retta delle braccia. Intorno al 1895, poi, apparve un nuovo tipo di busto che spingeva le rotondità della donna verso l’alto, schiacciando il ventre. Le vesti furono dotate di colli foderati e le sottogonne furono alleggerite dai merletti.
In questo periodo, inoltre, fece la comparsa un capo destinato a durare, pur modificandosi, fino ai giorni nostri: il tailleur, allora composto da tre pezzi. Con questo capo la moda femminile invadeva il territorio maschile. Comparvero così camicette lavorate con passamanerie, merletti e bottoni, corsetti molto meno attillati e gonne lunghe. Nel frattempo le donne, spossate da sempre nuovi busti che le costringevano in posizioni scomode e causavano forti dolori al ventre e alla schiena, iniziarono la loro battaglia contro la moda. La moda femminile si liberò così del busto a partire dal 1910. In contemporanea con questa innovazione, le gonne si strinsero in fondo, raccogliendosi intorno ai piedi, e conferendo un aspetto slanciato alla figura femminile dal petto prominente. I veri trionfatori della moda di questo periodo furono, però, i grandi cappelli piumati che adornarono ed aggraziarono i capi. I capelli, in questo periodo, vengono cotonati e trattenuti sopra la testa, raccolti all’indietro, e nessuna ciocca è lasciata libera dall’acconciatura. Le forcine scompaiono nella pettinatura, che conferisce alla donna un aspetto elegante e ordinato.