Eugène Atget

Noto come “il fotografo di Parigi” per il suo imponente lavoro sulla “Vieux Paris” diceva: “Posso dire di possedere tutto della vecchia Parigi“, per aver registrato con una interminabile sequenza di fotografie, gli aspetti quotidiani di una città che mutava, e la sua atmosfera quand’era ancora priva d’elettricità, d’acqua corrente, e dei segni dell’industrializzazione. Raccolte nel corso di quasi trent’anni, le immagini mostrano non solo la trasformazione di Parigi, ma anche l’evoluzione artistica del fotografo che dalle prime immagini descrittive inondate dalla presenza di una forte luce di mezzogiorno giunge a composizioni intense e curate e ad uno stile del tutto personale. Per cui non è considerabile soltanto un documentatore dei meravigliosi angoli della sua città ma il primo fotografo che liberatosi delle convenzioni del Pittorialismo, donò alla sua professione una nuova dignità, acquisita solo con i mezzi del suo specifico tecnico. Tutto secondo il proprio punto di vista, collezionando soggetti fino ad allora trascurati per affidarli alla memoria storica, sfruttando in maniera interpretativa perfino le limitazioni di un’attrezzatura e di materiali tecnicamente poco evoluti.

Nelle foto di Atget non vi è traccia di eventi celebrativi. Delle due maggiori esposizioni internazionali tenutesi nel 1889 e nel 1900 ad esempio, o di manifestazioni grandiose, ma possiamo vedere gli aspetti più dimessi e realistici della vita quotidiana: la descrizione di parchi, alberi, negozi, oggetti umili, particolari di facciate erose dal tempo, angoli di caratteristiche viuzze e, più di rado, uomini, i cui mestieri erano anch’essi emblematici di un passato che andava sparendo”Atget era un attore che, disgustato dai maneggi inerenti al suo mestiere, si tolse la maschera e poi si diede a struccare anche la realtà” scrive di lui Walter Benjamin. Per questo immenso lavoro solo poche volte esistette una specifica committenza, in genere da parte di istituzioni interessate alla documentazione (un’eccezione appare la richiesta da parte di André Dignimont di una serie di immagini sui bordelli per un mai realizzato libro); Atget appare motivato in questa sua “epica impresa” di preservazione della memoria più da una sorta di “autocommittenza”, che dal suo presunto impegno a rifornire d’immagini pittori (anche di un certo spicco) ed illustratori..
Limite imprevisto della tecnica di Atget appare semmai quello legato alla conservazione di carte sensibili, le cui componenti organiche, reagendo in differente misura da stampa a stampa al trascorrere del tempo, danno un’impronta d’apparente difformità all’opera. Per il resto, ogni altra peculiarità tecnica appare più sfruttata ad arte che subita.
Egli rimane, certamente per scelta, fedele fino alla fine al suo pesante apparecchio fotografico 18 x 24 a soffietto ed a un sistema di lenti, il cui assemblaggio modificabile consentiva di cambiare lunghezza focale, ma non di evitare tempi di posa molto lunghi e vignettature. E proprio tali tempi d’esposizione gli consentono di creare quel suo particolare vuoto, quasi metafisico, intorno ai suoi soggetti: “curiosamente quasi tutte queste immagini sono vuote… Sono queste le opere in cui si prefigura quella provvidenziale estraniazione tra il mondo circostante e l’uomo, che sarà il risultato della fotografia surrealista”, scrive Benjamin.
Sempre da ricollegare al sistema focale, è in Atget la tipica prospettiva “pendente” delle pavimentazioni (forse mutuata, per la sua esperienza di attore, dalle scenografie teatrali) presente in molte immagini, che trova un culmine espressivo nella foto del “venditore di paralumi”, del 1889-1900. La vignettatura stessa costituisce a volte una sorta di richiamo al teatro ed alle sue quinte.
Per quanto riguarda le stampe, il passaggio dai toni più chiari della carta all’albumina del suo primo periodo alla cosiddetta carta salata, sembra rispecchiare in pieno un cambiamento di interessi estetici, ravvisabile nella contemporanea scelta di introdurre nelle riprese illuminazioni più soggettive, che la nuova emulsione fotosensibile esaltava con una sua peculiare resa di pulizia dei bianchi e profondità dei neri.
Pur avendo acquistato larga notorietà dopo la sua morte, la portata rivoluzionaria delle immagini di Atget fu intuita in origine soltanto dai Surrealisti che colsero alcuni importanti aspetti della sua opera. Fu infatti scarsamente compreso dai suoi contemporanei, morì in miseria pur avendo lasciato a Parigi, un repertorio unico per quantità e complessità d’immagini soprattutto ottenute attraverso un linguaggio nuovo. Il merito più grande di Atget consiste nell’aver coniugato una consumata maestria tecnica celata dietro la semplice naturalezza delle sue immagini Ancora oggi la personalità artistica di questo straordinario fotografo viene offuscata da alcuni luoghi comuni che lo vedono come possedere una sorta di subordinazione ai limiti tecnici o appartenente al campo della pedissequa documentazione sociale. Invece si può considerare come il primo fotografo nell’accezione moderna del termine cui dobbiamo una forma di visione pura, libera dagli orpelli del simbolico e del pittoresco che non mirava a registrare la realtà asetticamente, ma piuttosto di ricrearla fotograficamente, per mezzo di luci, ombre ed inquadrature.