Neorazionalismo

Nato a Milano nel 1931, Aldo Rossi rappresenta uno dei maggiori protagonisti dell’architettura italiana. Ha portato avanti, in opposizione ai principi del Movimento Moderno, la necessità di un ritorno alla architettura aderente alle tradizioni culturali delle varie realtà geografiche ed ha proposto, nella sue elaborazioni teoriche, elementi divenuti basilari per la corrente del neorazionalismo, esplicitati attraverso il movimento denominato “Tendenza” di cui è stato il caposcuola.
Il neorazionalismo, sviluppatosi a partire dal 1960-70, si è diffuso in alcuni paesi europei -tra cui l’Italia- ed anche negli Stati Uniti ed in Giappone ed ha nel tempo raccolto al suo interno, diverse scuole di pensiero architettonico. Si tende a recuperare la cosiddetta “forma pura” nell’intento di promuovere una architettura che, pur tenendo conto della funzionalità, rifiuti il principio che “dalla funzione discenda la forma”. Anche la città è guardata con occhio diverso: deve esser vista come un insieme di pezzi in sé compiuti, e la storia secondo una idea di continuità. Rossi esplicita il suo modo di vedere già nel 1966, pubblicando “L’architettura della città” e nel 1973 quando cura la mostra internazionale di architettura a Milano nell’ambito della XV triennale. Muovendosi tra “invenzione e memoria”, nel 1973, con la sua progettazione del Municipio di Trieste reca un omaggio alla ottocentesca tradizione locale.
Siamo nel 1979, nel Museo Teatro del Mondo per la Biennale di Venezia, Rossi si serve della storia come di un repertorio di elementi evocativi che fa del teatro quasi la quinta di una scena, col suo senso di provvisorio. E’ importante in Rossi, l’azione di recupero della tematica tipologica e la ricerca di quel nuovo ruolo che deve essere assunto dal monumento in ambito urbano. Il recupero della storia si vede nella pianta, ma anche nei materiali. Le architetture sono fatte di materia, volume, effetti cromatici a volte forti, ma soprattutto hanno dietro uno studio profondo dei contesti, della storia locale, della natura dei luoghi. Sospesa tra razionale e surreale la realizzazione del Cimitero di Modena del 1980.
E ancora, l’edificio per uffici Casa Aurora del 1987 e la Villa a Berlino a Tiergarten del 1985 con fasce di colore rosso alternato al giallo. Nei saggi scritti da Rossi emerge un importante contributo al recupero della continuità spaziale con il tessuto della città tradizionale, in opposizione con le precedenti tendenze relative al pensiero urbanistico che promuoveva l’utilizzo dello zoning.
Tra le opere più recenti di Rossi, le progettazioni a Berlino. Nel 1989 l’edificio residenziale sulla Kochstrasse propone una enorme colonna angolare, di forte impatto visivo, i blocchi si staccano e si ripetono in un susseguirsi ritmico. Portoghesi afferma: “Il comporre di Rossi è insieme logico e analogico traducibile e intraducibile e, nonostante le dichiarate e mai smentite simpatie razionaliste, egli non nega la sostanziale ambiguità della sua opera (…) L’analogia diventa per Rossi però non solo lo strumento per caricare le sue immagini di riferimenti mnemonici e di sollecitazioni inconsce; essa si collega alla tipologia e diventa un modo di conoscenza e di costruzione della realtà urbana“.
Per il successivo progetto dell’Isolato sulla Schutzenstrasse a Berlino, dichiara egli stesso: “…rivela un particolare interesse per due aspetti della ricostruzione della città di Berlino: da un lato la ricostruzione e il restauro degli edifici storici e caratteristici dell’edilizia del passato; dall’altro la costruzione di edifici completamente nuovi ad essi congiunti. In questo progetto si trova un edificio probabilmente di non alto valore storico-artistico ma nel contempo caratteristico di una visione di Berlino, quale era prima della guerra e che possiamo studiare nei libri di storia“. Una sintesi, quella cercata da Rossi, che sta in equilibrio tra rigore e poesia, tra memoria e surreale, a mio avviso espressa molto bene da una nota immagine del fotografo L. Ghirri relativa all’architettura del Cimitero di Modena.
Nato a Mendrisio nel 1943, Mario Botta, rappresenta una delle figure di maggiore rilievo nell’attuale panorama architettonico europeo. Allievo di Scarpa, ha saputo creare un suo originalissimo linguaggio attingendo alle teorie del neorazionalismo ed alle suggestioni derivategli dalla tradizione costruttiva dell’architettura rurale ticinese, dalle costruzioni romaniche ed anche al repertorio architettonico italiano degli anni 1970. Le opere di Botta sono gioco di masse, dove il taglio, sempre presente nel particolare come nel disegno complessivo, smaterializza la pesantezza fino a renderla leggera ed al contempo, consistente. Esponente della cosiddetta Scuola Ticinese, Botta, ai suoi esordi opera attraverso la rielaborazione della tradizione italiana e moderna nel clima culturale degli anni 1970/80.
Egli entra in contatto con quella parte di pensiero che provava a trovare una mediazione dell’architettura organica con le influenze ricevute dal Movimento Moderno. Indispensabile per la sua formazione fu anche il contatto che ebbe con Kahn nei primi anni della sua carriera. Nel 1967 realizza la “Casa a Stabio” in cemento a vista, che rappresenta una delle sue prime opere dove è leggibile l’influenza di C. Scarpa. Ma è con la “Casa a Riva S. Vitale” che il maestro della scuola ticinese, offre la prima vera originale interpretazione della casa unifamiliare. La casa è riparo, rifugio, ma è anche posta in relazione con l’esterno. Il materiale, mattoni di cemento, costituiranno in seguito un motivo ricorrente nelle opere di Botta insieme a quelli in cotto.
La “Casa rotonda di Stabio” è del 1982; con questa ed altre progettazioni del periodo Botta definisce il suo modo di costruire che diverrà immediatamente riconoscibile, come una firma. Forte è l’impatto percettivo, non solo per un codificato repertorio di segni ricorrenti, come i tagli, le bucature, i materiali, ma per l’uso che fa dei volumi nello spazio. Volumi, sempre generati dalla elaborazione di elementi geometrici primari, quali il quadrato, il cerchio, il triangolo. La muratura è sempre esaltata nella sua tessitura, ed è sempre presente la simmetria delle parti.
Con la “Casa a Morbio superiore” assistiamo ad un progressivo staccarsi della facciata dal corpo della abitazione, fino quasi a diventare una quinta. La luce, quasi sempre adoperata quella zenitale, costruisce insieme alla geometria la spazialità delle opere di Botta, che sono studiate fino ai minimi particolari. Botta, a tal proposito è noto anche per i suoi lavori di designer. Il gioco dei colori, le bucature che assumono le loro forme in relazione all’andamento della luce, il sapiente modellare spazi aperti-spazi chiusi in una costante ricerca di rapporto tra lo spazio esterno e quello interno, si ritrovano in una delle sue opere più recenti, un Museo d’arte contemporanea, il M.A.R.T. di Rovereto.
Per comprendere appieno le architetture di Botta occorrerebbe guardarle da vicino, osservare come dietro il disegno ci sia poi un lavoro fatto di presenza nel realizzare l’opera. La cura dei particolari, degli impianti, del materiale, dell’uso della luce… sembrano confluire verso una unione tra creatività e pragmatismo, amore per le innovazioni tecnologiche e dell’antico sapere artigiano che non è facile trovare in un progettista solo. Afferma riguardo se stesso: “…La mia presenza sul cantiere deriva anche da una consapevolezza critica, dal comprendere cioè che l’architettura consiste nell’opera realizzata. L’architettura infatti,- come sosteneva Kahn- di per sé non esiste; ciò che esiste è l’opera, che rappresenta l’incontro tra il mondo delle idee degli architetti e la realtà“.